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Cosa è EAR – Environmental Action Rome?

Una possibilità per cambiare

Caput Mundi: è questo l’unico titolo che si dovrebbe confare all’Urbe, senza alcuna accezione imperialista o ideologicamente reazionaria ma solamente estetica.

Eppure Roma è vittima ogni giorno di attacchi che quotidianamente ne sviliscono la bellezza, ne debilitano le quintessenziali fattezze e indeboliscono l’orgoglio proprio dei Romani, di chi la Capitale la vive e la soffre.

Chi vandalizza Roma è chi ne trascura negligentemente il decoro, chi contribuisce al suo decadimento estetico, chi sceglie di voltare le spalle ad una città sofferente socialmente e culturalmente nonché chi non ha colto l’intensificazione e la reminiscenza dello spirito ambientalista europeo ed internazionale come una cruciale opportunità di rigenerazione urbana.

Environmental Action Rome (EAR) si propone come una possibilità per cambiare, non per il gusto di cambiare bensì per la sua necessità.

Senza sterile idealismo e senza cieco pragmatismo, EAR nasce con lo scopo di incanalare le energie vivificate di ambientalisti e cittadini romani in un ambizioso progetto di rinascita sociale, culturale e ambientale dell’Aeterna Urbe.

E abbiamo bisogno del tuo aiuto.

Be Green, Make a Statement

— Emma Sciarra, membro fondatore EAR.

Architettura & Ambiente: Un Dilemma

Da che parte schierarsi?

Progettare un nuovo colosso polifunzionale ,che sviluppandosi in altezza risparmia l’occupazione di suolo ma ne inquina gli orizzonti oppure seguire l’orografia del territorio, uniformarsi, compenetrarla con spazi ipogei e di altezze ridotte?

Come agire per salvaguardare al meglio il territorio?

Non c’è un’unica risposta corretta ma varie teorie e punti di vista che portano oggi alla progettazione più disparata di strutture ecosostenibili.

Un esempio è quello del nuovo Campus Bocconi a Milano, un’architettura NZEB, nearly zero energy building. Dopo il monolitico edificio delle irlandesi Grafton Architects, a Milano il progetto del nuovo Campus a firma delle due archistar giapponesi, premio premio Pritzker 2010, Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa dello studio SANAA.

Nasce su 35.756 metri quadrati dell’ex centrale del latte di Milano il nuovo campus universitario. Il progetto, firmato dagli architetti giapponesi dello Studio Sanaa, oltre a residenza per gli studenti e a centro sportivo con piscina aperto a tutti, è stato costruito con una particolare attenzione all’efficienza energetica, con pannelli fotovoltaici, sistemi di ventilazione ed illuminazione naturale, l’integrazione di muri isolanti al 50% opachi e 50% trasparenti, e opportune strategie energetiche sono state predisposte mediante l’utilizzo di sorgenti idriche sotterranee o sistemi di riciclo dell’acqua piovana.


A cura di Chiara Passagrilli

FAST FASHION: “Fast” Non Significa “Better”

Con lo sviluppo delle tecniche di produzione e, di pari passo, dei consumi di massa, l’industria della moda ha subito vari cambiamenti strutturali. Alla fine del ventesimo secolo si è diffusa una nuova strategia di produzione, denominata “fast fashion”.  Essa si basa sul passaggio dall’attenzione al prodotto, a quella sulla produzione. Il concetto chiave è la “risposta rapida”, ossia la capacità delle industrie di stare al passo con la domanda sempre crescente di prodotti nuovi.

Sebbene sia chiaro il guadagno economico atteso da questo nuovo sistema di produzione, bisogna comprendere quali siano i suoi retroscena.
Uno dei  problemi di questo nuovo modello di produzione è l’influenza che ha sull’ambiente. Le emissioni dell’industria della moda sono pari al 10% dell’anidride carbonica emessa.

Uno dei motivi è l’utilizzo del poliestere, materiale economico e assai facile da reperire e da lavorare, che rilascia quasi tre volte le emissioni prodotte dalla produzione e lavorazione del cotone. Tuttavia, anche il cotone presenta dei lati negativi. Infatti, per far crescere 1Kg di cotone sono necessari quasi 10.000 litri d’acqua. Secondo uno studio del Water Footprint Network, l’acqua consumata in India per far crescere le esportazioni di cotone sarebbe stata sufficiente a fornire 100 litri d’acqua ogni giorno per un anno all’’85% della popolazione.

Constatato che i consumi d’acqua sarebbero sufficienti a censurare questo sistema di produzione, ci sono altri effetti negativi sull’ambiente.
Infatti, un altro problema molto grave è l’inquinamento provocato dalla tintura dei tessuti, che è responsabile del 20% della contaminazione idrica mondiale. Per fare un esempio il lavaggio dei capi composti di poliestere rilascia nell’oceano 500.000 tonnellate di microfibre ogni anno, equivalenti a 50 miliardi di bottiglie di plastica.
Uno studio dell’International Union for Conservation of Nature (ICUN) ha stimato che il 35% delle microplastiche nell’oceano proviene dal lavaggio dei tessuti sintetici.

Una risposta a questo fenomeno è arrivata nel 2007 quando Kate Fletcher ha dato vita al movimento dello “slow fashion”, stabilendo 5 principi fondamentali:

  1. La qualità, in quanto l’utilizzo di materiale di buona qualità permette un ciclo di vita più lungo degli indumenti
  2. L’estetica: i capi devono avere un “design senza tempo”, per contrastare la tendenza delle grandi industrie a produrre  un numero eccessivo di collezioni all’anno (all’incirca quaranta).
  3. Il valore: evidenziare che i capi hanno un valore anche con l’aumento dei prezzi, così da garantire un acquisto consapevole.
  4. La filiera: la necessità di una filiera trasparente dalla materia prima fino al prodotto confezionato, con lo scopo di sviluppare un’etica del lavoro, possibilmente preferendo capi artigianali e prodotti in prossimità.
  5. Le “pratiche virtuose”: imparare a stare attenti all’etichetta, optare per la rivendita di abiti usati e magari, con un po’ di creatività, l’utilizzo di materiali riciclati.

In conclusione, pur essendo tutti consapevoli del vantaggio economico di questo modello di produzione, è chiaro che sia necessario un rallentamento. Il “fast fashion” ha aperto il mondo della moda a persone di ogni estrazione, mostrandosi come un fenomeno di sviluppo economico e sociale. Tuttavia, con il passare del tempo, diventa evidente che gli effetti positivi non sono poi così sostenibili.


A cura di Marianna Stajano

FASE DUE: Caput Mundi

Il lockdown è ormai fortunatamente agli sgoccioli. Chissà se questi due mesi di quarantena ci hanno insegnato qualcosa? Intanto Roma comincia a prepararsi gradualmente alla riapertura e diversi cambiamenti stanno per prendere atto; alcuni, sembrerebbe, molto molto favorevoli.

Con il calo dei contagi, grazie alle severe restrizioni che nelle ultime settimane ci siamo tutti sforzati di rispettare, adesso è tempo di tornare alla normalità. Seppur, ovviamente, con ovvia cautela: obbligo di mascherina e distanziamento su taxi e mezzi pubblici; dilatazione delle fasce orarie di punta; divieto di consumo sul posto in bar e ristoranti, e food delivery senza limiti di orario.

E mentre qualcuno già si diverte a vandalizzare la nuova segnaletica di distanziamento su metro e autobus, delle buone notizie sembrano arrivare dal Campidoglio: un piano straordinario da 150 km di nuove corsie ciclabili è stato approvato. A comunicarlo sui social network è stato l’assessore alla città in movimento Pietro Calabrese.

Fonte: Agi

Per accelerare dunque la Fase Due e agevolare lo spostamento individuale in città, partiranno già dalla prossima settimana, con un ritmo di tre km al giorno, i lavori per nuove piste ciclabili “transitorie”, ovvero corsie ad uso ciclabile lungo il lato destro dei sensi di marcia con segnaletica leggera e facili e veloci da realizzare, le quali verranno poi strutturate e definite al meglio in una successiva fase. Tra i percorsi previsti: il lungotevere da nord a sud e via Nazionale; dalla basilica di San Paolo fino a Piramide, dalla metro B di ponte Mammolo alla stazione Termini passando per la stazione Tiburtina; 9 chilometri lungo la Colombo fino a Ostia e il litorale e altrettanti su via Appia e tra viale Marconi e Porta Portese.

Fonte: WIRED

È inoltre in corso di approvazione la delibera che consentirà di lanciare un avviso pubblico per far approdare, finalmente anche a Roma, la micro-mobilità in sharing (vale a dire il monopattino elettrico).

Insomma, non ci stupisce il fatto che solo un’emergenza sanitaria come quella del Covid e il bisogno vitale di distanziamento sociale potevano davvero spingere la giunta capitolina alla realizzazione concreta (e non solo su carta) di una vera e propria rete ciclabile in città.

Sperando che i piani verranno rispettati, nel frattempo, incrociamo le dita…


A cura di Andrea Polenta

FOTOGRAFIA URBANA & ROMA: Gabriele Basilico

Sono molte le discipline che prendono come soggetto il paesaggio urbano e che si prestano per conferirgli un ritratto che sia veritiero e attuale. Una tra queste è la fotografia.

La metropoli è sempre stata al centro delle indagini e degli interessi di Gabriele Basilico (1944-2013). Il tema del paesaggio antropizzato, dello sviluppo e delle stratificazioni delle città, dei margini e delle periferie in continua trasformazione sono stati da sempre il principale motore della sua ricerca.

A Roma, l’indagine di Basilico si dipana tra i poli periferici, passando per il centro storico. In uno scorrere continuo, un loop di immagini, la periferia settentrionale e meridionale si fondono, quasi confondono, unica costante l’acqua e una vegetazione onnipresente.

L’obiettivo fotografico  si posa sui difetti e sui pregi, testimoniandoli con lo stesso interesse documentale, questo consente una riflessione sulla città in bianco e nero.

Recentemente il  Palazzo delle Esposizioni ha presentato la grande mostra Gabriele Basilico. Metropoli, promossa da Roma Capitale, incentrata sul tema della città con oltre 250 opere dagli anni Settanta ai Duemila.

Il percorso espositivo della rassegna si articola in cinque grandi capitoli, alcuni tra questi hanno come oggetto l’ambiente (urbanizzato e non) e come scopo quello di restituire notorietà ad alcuni paesaggi quotidiani forse dimenticati.

Milano. Ritratti di fabbriche 1978-1980”, il primo importante progetto realizzato da  Basilico; le  Sezioni del paesaggio italiano, un’indagine realizzata nel 1996 in collaborazione con Stefano Boeri e presentata alla Biennale Architettura di Venezia, dove Gabriele Basilico ha percorso sei “sezioni del paesaggio italiano”, lunghe 50 km, in una lettura fotografica che rileva le loro assonanze e dissonanze mettendo in evidenza la straordinaria varietà morfologica del paesaggio italiano.

Beirut, due campagne fotografiche  realizzate in bianco e nero e a colori, la prima alla fine di una guerra durata oltre quindici anni, la seconda per raccontarne la ricostruzione; “Le città del mondo”, un viaggio nel tempo e nei luoghi da Palermo, Bari, Napoli, Genova e Milano fino a Istanbul, Gerusalemme, Shanghai, Mosca, New York, Rio de Janeiro e molte altre ancora; infine  Roma, la città nella quale Basilico ha lavorato a più riprese, sviluppando progetti sempre diversi come la messa a confronto tra la città contemporanea e le settecentesche incisioni di Giovambattista Piranesi.


A cura di Chiara Passagrilli

22 Aprile 2020: Giornata Mondiale della Terra

L’ “Earth Day”, è celebrato ogni anno dalle Nazioni Unite il 22 aprile, esattamente un mese e due giorni dopo l’equinozio di primavera.

Nata dall’iniziativa del senatore del Wisconsin (USA) Gaylord Nelson, in seguito al disastro ambientale (1969) causato dalla fuoriuscita di petrolio dal pozzo della Union Oil di Santa Barbara, in California, è diventata, negli anni, una manifestazione di portata mondiale. Il 22 aprile 1970, si tenne, negli Stati Uniti, la prima manifestazione di larga portata a favore del diritto di tutti ad “un ambiente sano, equilibrato e sostenibile” e così fu istituita la Giornata della Terra.

Questo giorno dedicato al nostro Pianeta ha visto, col passare del tempo, una sempre maggiore diffusione raggiungendo nel 2000, grazie anche ad Internet, la partecipazione di 5.000 gruppi ambientalisti al di fuori degli USA.

Giunta quest’anno al suo cinquantesimo anniversario, la Giornata della Terra, celebrata oggi in 192 paesi, si pensa che avrà un impatto sociale sull’azione ambientalista nonché, ovviamente, mediatico, nonostante l’emergenza Covid-19.

Di fatti, malgrado le manifestazioni si possano svolgere solamente in rete, ne sono state programmate diverse, a partire dalla maratona digitale #Earthise di 24 ore che collegherà tutto il mondo.

Di particolare rilievo è l’“Earth Challenge” , organizzata direttamente dall’ “Earth Day Network”. Quest’iniziativa consiste nel lancio di un’applicazione che permetterà ad ogni utente di raccogliere dati rispetto alla qualità dell’aria e all’inquinamento da plastica nel luogo in cui vive. La piattaforma sarà utilizzata come centro pubblico di raccolta dati per future ricerche scientifiche alla portata di tutti con l’obiettivo di creare nuove proposte di policy.

In Italia, invece, per la Giornata Mondiale della Terra, è stata organizzata la manifestazione #OnePeopleOnePlanet, che consiste in una diretta streaming di 12 ore, in onda su Rai Play, che raccoglierà artisti, scienziati, giornalisti, rappresentanti istituzionali e cittadini.

Le celebrazioni, a cura di “Earth Day Italia” e “Movimento dei Focolari” inizieranno con  un focus sull’ Enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco nell’anno del suo quinto anniversario. Infatti, ispirandosi alle parole del “Cantico delle Creature” di San Francesco, anche il pontefice, nel 2015, ha rilanciato la necessità di un impegno globale per proteggere il nostro Pianeta.

Ogni giorno è il giorno della Terra, prenditi cura della tua casa!


A cura di Emma Sciarra

Che Cos’è l’Economia Circolare (e Come Applicarla al Proprio Business)

“Avremo bisogno di altri tre pianeti” aveva dichiarato qualche tempo fa lo chief scientist per la NASA Dennis Bushnell in vista del “fallimento” verso cui “l’intero ecosistema” terrestre sta andando. La via della fuga verso nuovi mondi tuttavia non sembra facile da percorrere e così, nel frattempo, sta prendendo piede un’alternativa che non prevede alcuno “spostamento spaziale” ma la cui realizzazione sarebbe altrettanto rivoluzionaria. Di cosa si tratta? 

Dell’economia circolare.

Più precisamente la circular economy è, secondo la definizione della Ellen MacArthur Foundation*, un sistema economico pensato per potersi rigenerare da solo;

“è un continuo ciclo di sviluppo positivo che preserva e valorizza il capitale naturale, ottimizza l’uso delle risorse e minimizza i rischi gestendo al meglio risorse finite e flussi rinnovabili.” 

La sua origine, in realtà, non è così recente. Già nel 1976 infatti l’architetto svizzero Walter R. Stahel aveva introdotto il concetto di “economia ciclica” nel suo rapporto per la Commissione europea “Potential for Substitution Manpower for Energy” e, da quel momento, l’idea di un’economia capace (semplificando) di non consumare altre materie prime e di sfruttare integralmente il proprio output scomponendolo e ri-assemblandolo diversamente  più e più volte ha iniziato a solleticare le menti di economisti, politici e imprenditori (ma non solo) acquisendo così sempre maggior popolarità. 

I dati parlano chiaro infatti. Si prenda, per esempio, in considerazione il numero di articoli che un quotidiano nazionale come Repubblica ha dedicato alla tematica negli ultimi anni. Tra il 1984 ed il 2013 compaiono solo quattro articoli nell’archivio della testata giornalista mentre, solo nel biennio 2014-2015, ne sono stati stati pubblicati più di venti. 

Nonostante l’interesse per l’argomento sia notevolmente accresciuto le realtà che hanno però applicato i principi dell’economia circolare non sono moltissime, perlomeno in Italia (queste mosche bianche si possono individuare sull’atlante di economiacircolare.com). Proprio per questo motivo Emanuele Bompan nel volume “Che cosa è l’economia circolare” (Edizioni Ambiente, 158 pag., 15 euro) ha voluto suggerire quattro modelli per rendere il proprio business più sostenibile che dovrebbero essere quantomeno presi in considerazione.

I. “Product as a service”

In questo caso l’azienda che produce un determinato prodotto non deve porsi l’obiettivo di venderlo ma quello di massimizzarne l’utilizzo.

Grazie a questa innovativa forma di business sono infatti nati recentemente i car sharing che permettono di tener ferme il minor tempo possibile le automobili in una determinata città. Tuttavia si potrebbe riprodurre questo modello in moltissimi altri campi; cosa succederebbe se, per esempio, anziché avere un trapano (o altri strumenti usati occasionalmente)  per ciascun appartamento se ne usasse uno solo in condivisione nell’intero condominio?

II. Rigenerazione a catena di produzione circolare

La Renault ha recentemente aperto una fabbrica a Choisy-le-Roi, nella periferia di Parigi, per rigenerare prodotti a partire dai rottami. Le auto precedenti divengono così prezioso materiale da trasformare per creare i pezzi di sostituzione dei nuovi modelli (che vengono poi venduti al 50-70% del loro prezzo originale). In questo modo la casa automobilistica francese sostiene di aver ridotto i consumi di rifiuti del 77%, quelli idrici di circa il 90% e quelli dell’elettricità dell’80%. 

Attuare un modello del genere quindi offrirebbe, oltre ai vantaggi di immagine, dei benefici concreti e tangibili. 

III. Upcycling

Possiamo trasformare il rifiuto di un prodotto in qualcosa che ha ancora più valore di quando il prodotto era pienamente utilizzabile? Secondo la teoria dell’upcycling sì e Aquafil, azienda produttrice di filati di nylon, sembra esserne l’esempio più virtuoso. Grazie al sistema Econyl infatti l’impresa ha trovato il modo di trasformare il “nylon 6” proveniente da rifiuti post-consumo in nylon di migliore qualità.

IV. Life-extension

No all’obsolescenza programmata e no all’immediata sostituzione. I prodotti realizzati seguendo questo modello di business devono essere infatti il più duraturi possibile e, soprattutto, di facile e conveniente riparazione. 

Bompan l’ha dimostrato chiaramente: applicare i principi dell’economia circolare nel proprio piccolo è possibile e si può iniziare oggi stesso. L’economia lineare (sintetizzata dal gruppo rock/punk degli anni ‘80 CCCP Fedeli alla linea nelle parole: produci, consuma, crepa.) si è, d’altronde, dimostrata incapace di fronteggiare la sfida del futuro di non consumare tutta la materia prima offertaci dalla terra. È vero, il passaggio all’economia circolare implica notevoli cambiamenti ma… almeno che non si voglia cambiare pianeta bisognerà cambiare il pianeta. 

*La EMAF è nata nel 2010 grazie a colei che per prima, tra le donne, circumnavigò in solitaria il mondo. La fondazione non profit ha come unico scopo quello di accelerare la transizione verso un’economia rigenerativa e circolare e renderla effettiva e concreta. 


A cura di Flavia Cuccaro

Alla Scoperta Della Storia Dell’Esquilino

L’Esquilino non è soltanto il nome di questo rione ma è anche uno dei sette colli di Roma, insieme a CampidoglioViminalePalatinoAventinoCelio e Quirinale, nonché il più alto.

L’etimologia, tutt’ora incerta, riflette l’alone di mistero e fascino che caratterizza da sempre questo quartiere. Il nome “Esquilino” forse deriva dall’antico nome latino “Esquilinus” che molto probabilmente trae le origini dalla parola “esculus” o “eschio“, albero glandifero caro a Giove; oppure da “Excubie“, le guardie che Romolo mandava in giro di notte per difendersi dalle insidie sabine di Tazio. Ma molto probabilmente, “Aexquilae” era solo la definizione della fascia suburbana della prima Roma dell’VIII/VII secolo a.C., che traeva la sua origine etimologica dal verbo “ex-colere”, ovvero “abitare fuori” (dalle mura): i suoi abitanti erano quindi detti “ex-quilini” in relazione agli “in-quilini,” che abitavano nel nucleo centrale dell’urbe, all’interno della cinta Serviana.

Tempio di Minerva Medica

Il colle è costituito da tre sommità: l’”Oppius” (il Colle Oppio, ovvero il settore meridionale, dove sono le Terme di Tito e di Traiano); il “Fagutal” (la punta occidentale, dove è situata la chiesa di S.Pietro in Vincoli)  ed il “Cispius” (la zona settentrionale, dove si trova S.Maria Maggiore).

Nel Catalogo sia augusteo che costantiniano il rione faceva parte della “V Regio Esquiliae“. Su questo “altissimus Romae locus” si riscontra una cerchia di fortificazioni della città eseguita da Servio Tullio detta “Aggere Tulliano“, costruita verso la metà del VI secolo a.C., quando, cioè, la zona iniziò ad essere abitata.

Santa Maria Maggiore

Benché Mecenate vi avesse costruito la sua gran villa (Hortus) e vi abitassero Orazio, Virgilio, Properzio ed altre illustri personalità, l’Esquilino mantenne a lungo la sua fama di luogo miserando e maledetto, a ricordo dei tempi più remoti, quando la zona era miasmatica, malsana e destinata a sepolcreto per schiavi, meretrici e condannati a morte.

Santa Maria Maggiore

La storia si ripeté anche nel Medioevo quando maghi, streghe e negromanti scelsero l’Esquilino per darsi convegno notturno e celebrarvi misteriosi riti.
Il rione, considerato fino ad allora un luogo miserabile e maledetto, ebbe nel Cinquecento una riqualificazione. In antichità la zona era una sorta di grande cisterna in quanto tutti gli acquedotti passavano per l’Esquilino, ma Papa Gregorio XIII Boncompagni e poi a Sisto V diedero il via ad un’impostazione urbanistica del rione. Il primo aprì la famosa “via Gregoriana“, l’attuale via Merulana, e il secondo fece costruire la “Strada Felice”, creando così una connessione tra i quartieri Monti, Esquilino e San Giovanni. Sempre a quell’epoca, 1575, si costruì l’attuale porta S. Giovanni, essendo divenuta insufficiente al traffico quella antica, la porta Asinaria.

Da quel periodo in poi furono edificate nella zona grandi ville patrizie, destinate però a scomparire negli anni ’70 del 1800. Dopo il 1870, con Roma capitale, l’Esquilino fu infatti la zona d’attacco della speculazione edilizia, favorita dalla avidità di denaro dei proprietari aristocratici delle ville della zona: il quartiere perse tutta la ricchezza del suo verde, della sua storia, dei suoi giardini, per essere soffocato dalle abitazioni per la nuova borghesia impiegatizia (Nuovo Quartiere Esquilino). Ciò ne ha definito le caratteristiche edilizie ed urbanistiche attuali.

Via Carlo Alberto

Il piano regolatore redato da Alessandro Viviani nel 1873, prevedeva anche un grande spazio (Piazza Vittorio Emanuele II), in posizione centrale, rispetto al rione. E proprio il progetto di Piazza Vittorio (come viene usualmente chiamata) che trova pratica realizzazione tra gli anni 1882 e 1887, indica senza ombra di dubbio l’intento di dare un’impronta “piemontese” al rione destinato a divenire un’area residenziale per la borghesia della nuova burocrazia statale. Infatti solo in questa piazza troviamo i caratteristici palazzi con i portici che, indubbiamente utili per ragioni climatiche nell’Italia settentrionale, non hanno trovato fortuna nelle successive realizzazioni architettoniche della Capitale.

E proprio questa piazza, Piazza Vittorio Emanuele II, diventa ben presto il cuore del rione, attorno al quale ruota tutt’oggi la vita del quartiere.
Il primo aprì la famosa “via Gregoriana“, l’attuale via Merulana, e congiunse S. Maria Maggiore a S. Giovanni in Laterano, e il secondo fece costruire la “Strada Felice”, che lega la Chiesa di Trinità dei Monti alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, passando per l’Esquilino. Sempre a quell’epoca, 1575, si costruì l’attuale porta S. Giovanni, essendo divenuta insufficiente al traffico (già a quei tempi!) quella antica, detta Asinaria.


A cura di Annachiara Squitieri

Per Una Pasqua Sostenibile

Questa domenica, 12 aprile, sarà il giorno di Pasqua, e sarà diversa. Dovremo rimanere in casa evitando per quest’anno le solite scampagnate fuori città ma non per questo dovremo rinunciare al cibo che tradizionalmente ci accompagna in questa giornata: pizza al formaggio, casatiello, pastiera, uova di cioccolata e chi più ne ha più ne metta.

Quello che dobbiamo cercare di fare è limitare gli sprechi e fare una spesa consapevole. In queste scelte ci viene incontro Too Good To Go, applicazione che è stata creata per cercare di ridurre al minimo gli sprechi alimentari. Sul blog dell’applicazione si trovano infatti 3 consigli per passare una Pasqua più sostenibile e con zero sprechi:

  1. Utilizzare ingredienti locali a km 0 e di stagione, aiutando in questo modo le piccole imprese locali, che si trovano in difficoltà per la situazione attuale, e l’ambiente riducendo il trasporto;
  2. Fare una spesa oculata e pianificare nel modo migliore ciò di cui abbiamo bisogno e che possiamo conservare anche per i giorni successivi, osservando bene le date di scadenza dei prodotti;
  3. Utilizzare gli avanzi che teniamo da parte, e che il più delle volte alla fine buttiamo, includendoli nelle nostre ricette pasquali.

Se invece non avete voglia di cucinare, sul sito del Gambero Rosso si può trovare l’elenco di alcune rivendite romane, come ad esempio Retrobottega e Roscioli, che si sono unite per portare il menù di Pasqua a casa vostra. Tramite alcuni servizi di delivery potrete ordinare tra alcune opzioni che vanno dalla colazione al pranzo, preparate rigorosamente con prodotti locali.

E naturalmente, tutto quello che non mangiate lo potrete poi riciclare per il giorno di Pasquetta.

Buona Pasqua!

Qui trovate i link di Gambero Rosso e Too Good To Go


A cura di Francesca Miracle

La Città Post-Coronavirus

Da un mese a questa parte, ci troviamo immersi in un evento senza precedenti. Mai nella storia dell’uomo si aveva assistito a un’epidemia mondiale come quella del Covid-19. Mai era successo che 4 miliardi di persone dovessero rimanere in auto-isolamento nelle proprie case per settimane e mai era successo che l’economia di tutto il pianeta subisse un blocco delle proporzioni odierne.

Eppure è successo.

Ma, quando ne usciremo, torneremo a vivere allo stesso modo? Avremo gli stessi stili di vita del passato? Le città subiranno dei cambiamenti?

Questi sono gli interrogativi che diversi economisti, sociologi e progettisti si stanno ponendo al momento.

Piazza Navona deserta, 16 marzo 2020. Fonte: Wired.com

Certo, in una società come la nostra, così frenetica negli spostamenti e così consolidata nelle abitudini e negli stili di vita, risulterà complicato dover pensare a dei radicali cambiamenti. Basti pensare alla routine di uno studente medio in una metropoli come Roma per rendersi conto che quello studente farà continuamente, necessariamente parte di un assembramento: corse in autobus e metro strapiene all’ora di punta, lezioni ed esami in aule sovraffollate. E nel tempo libero? Ristoranti, cinema, concerti, negozi. Insomma, sappiamo che il contatto fisico è sempre stato all’ordine del giorno per tutti noi. Un’ovvia conseguenza dell’indole umana, predisposta da sempre alla socializzazione.

Tuttavia, determinati cambiamenti della nostra stessa routine potranno rivelarsi fondamentali nello scongiurare l’arrivo di nuove possibili epidemie.

Centro della questione è il discorso del distanziamento sociale.

Gli esperti parlano di shut-in economy, o economia al chiuso; in altre parole favorire, dove sia possibile, il lavoro in casa, così come altre attività per il tempo libero (corsi di varia natura, attività fisica) che non abbiano il necessario bisogno di essere svolte in luoghi dove si generino possibili assembramenti.

Controllo della fruibilità di grandi spazi in termini di numeri. Si parla quindi di ridurre/controllare la capienza di spazi particolarmente frequentati come aeroporti, stazioni, cinema, teatri, stadi, aule universitarie, così come di bar e  ristoranti.

Individualità degli spostamenti. Potrebbero essere avviate politiche e campagne di incentivazione nei confronti del trasporto individuale, mediante bicicletta e monopattino elettrico per una riduzione dell’uso congestionato degli altri mezzi di trasporto pubblico.

E lì dove gli assembramenti sono inevitabili (per l’appunto metropolitane, autobus etc.) gestione dei flussi con accessi ordinati mediante file e, anche in questo caso, riduzione numerica dell’accessibilità.

Il coronavirus non sta dunque portando a un cambiamento esclusivamente temporaneo del nostro stile di vita, ma sta dando probabilmente forma a nuovi modi di vivere e relazionarsi, sicuramente più controllati e ordinati e che, se entreranno in vigore, dovranno essere accettati e rispettati , così da non doversi ritrovare in futuro in nuovi, complessi lockdown.

Tecnologia & Ambiente: Quanto Siamo Lontani Da Una “Green Technology”?

Ora che siamo tutti dietro un PC, che i consumi sono stati ridotti all’essenziale, che i mozziconi di sigaretta li buttiamo nel cestino e non per terra, potremmo sfruttare quest’occasione per diminuire l’inquinamento.

Se all’inizio del millennio pensavamo che la tecnologia potesse essere una delle soluzioni a questo grande problema, ora sappiamo che non è così.

Ormai siamo abituati a pensare che internet sia un tassello del nostro ecosistema, ma ci siamo chiesti quanto costi all’ambiente caricare un telefono o inviare un’email? E se volessimo analizzare il problema alla radice, che cosa vuol dire, in termini di risorse naturali, costruire e smaltire tutti questi devices?

Tra le problematiche si possono prendere ad esempio i fenomeni dello “storaging” e dell’obsolescenza programmata.

Lo “storaging”

Nel 2007 tutto il settore ICT (Information & Communication Technology) causava quasi l’1% delle emissioni di gas serra globali. Le previsioni odierne indicano che tra vent’anni tale valore potrebbe raggiungere il 14-15%.

Per capire l’origine di fenomeno, dobbiamo scoprire ciò che si nasconde sotto il velo di Maya: i data center che assicurano la conservazione, senza limiti di tempo, delle innumerevoli transazioni, che ogni giorno hanno luogo su internet, e dati, che esse generano.

Data center | Camfil

Ad oggi questi grandi mostri producono il 45% delle emissioni ascrivibili al settore ICT. Il problema non risiede solo nei materiali di fabbricazione, ma soprattutto nel fatto che essi, per garantire tutte le attività che si svolgono su internet, siano operativi giorno e notte. Infatti, per permettere le loro prestazioni, vengono affiancati da altre grandi macchine di raffreddamento che, necessitando anch’esse di tanta energia, aumentano in modo esponenziale le emissioni prodotte.

Uno dei maggiori problemi dello “storaging” riguarda “l’inquinamento indoor”, ossia lo stoccaggio di file e dati. Per fare un esempio, il fatto che ogni giorno possiamo andare a rivedere un’email ricevuta ieri o un anno fa, ha un costo pari a 9g di CO2. Forse, se moltiplicassimo questo valore per il numero di email conservate per tutti coloro che hanno un account, ci accorgeremmo delle reali dimensioni del problema.

Per aggiungere un elemento di concretezza alle enormi dimensioni di “rifiuti virtuali” che si ammassano nei nostri “cloud”, è sufficiente considerare che, solo in Francia, i data center consumano più del 10% dell’elettricità del paese e che ogni secondo vengono prodotti quasi 45kg di rifiuti elettrici.

L’obsolescenza programmata

Il secondo grande problema della tecnologia, in tutte le sue forme (cellulari, computer, tablet, lavatrici, etc.), è quello di essere programmata per rimanere efficiente e funzionante per periodi di molto inferiori a quelli della loro effettiva capacità.

Uno studio condotto dall’Unione Europea ha valutato che se estendessimo anche di un solo anno la durata media di uno smartphone (attualmente è di 2-3 anni) risparmieremmo 2,1 Mt di CO2. Se proiettiamo questi valori a dieci anni di distanza, otterremo un risultato che equivale a togliere dalle strade un milione di automobili.

L'obsolescenza programmata sui prodotti? - La Casa di Paola

Per questo motivo è nato il movimento “Right To Repare che mira a sollecitare e facilitare la riparazione di dispositivi. Se questi durassero anche il 2% in più di quanto previsto dalle case produttrici, potremmo considerare intrapreso il cammino verso un futuro sia tecnologicamente avanzato sia eco-sostenibile.

La risposta legislativa a questo problema da parte degli stati e delle organizzazioni internazionali è, per la maggior parte, assai debole.

Negli Stati Uniti ancora non sono state approvate leggi che controllano questo fenomeno, nonostante alcune delle più importanti industrie ICT, come Apple e Samsung, siano state citate in giudizio più volte per aver programmato un’obsolescenza dei propri dispositivi assai inferiore alla durata potenziale.

Al contrario, in Italia vi è stata un’iniziativa in questa direzione promossa dal Codacons e ripresa da alcuni senatori che, nell’estate del 2018, hanno presentato un disegno di legge (AS 615) di cui leggasi di seguito un breve passaggio:

“È fatto divieto al produttore di mettere in atto tecniche che possano portare all’obsole­scenza programmata dei beni di consumo.

Il produttore è tenuto, per i beni di con­sumo elettrici ed elettronici che per il loro cor­retto funzionamento prevedono una compo­nente software, per tutto il periodo della com­mercializzazione e per un periodo ulteriore pari alla durata della garanzia legale, ad assicurare la disponibilità di aggiornamenti del software e delle applicazioni ad esso afferenti, nonché la necessaria assistenza tecnica.”

AS 615/2018

Il ddl mira quindi a protegge i consumatori e a garantire la possibilità di utilizzare pienamente i beni acquistati. È difficile controllare questo fenomeno, ma stiamo facendo dei passi in avanti.  

Una goccia nel mare: abbiamo davvero bisogno di conservare decine di migliaia di foto su ciascuno dei nostri devices?


A cura di Marianna Stajano

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